volontari per destinazione ignota

Ma perché sono così ostinata?

Anche se stamattina al lavoro ho rischiato l’errore fatale (quello da licenziamento in tronco) perché sono talmente stanca che il cervello mi sta andando in pappa.
Anche se ho perso/mi hanno rubato il portafoglio (va bene che non c’era una lira dentro, ma vuoi mettere la scocciatura di dover bloccare il bancomat e rifare la patente) e me ne sono accorta sei ore dopo.
Anche se sono andata a misurare ufficialmente la nuova casa e non ci entra niente, dico niente (e settecento euro al mese sono un’enormità, considerando gli infissi sconquassati e le piastrelle dell’angolo cottura che si stanno inesorabilmente staccando).
Anche se il figlio si dimostra sempre più fancazzista e afasico e domani ha già progettato di non andare a scuola per l’ennesima volta.

Io mi ostino a sentirmi tranquilla e, insomma, anche contenta.
Sìsì, e non so il perché.

E poi, comunque, il portafoglio mi è stato riporato a casa da due nordafricani che l’hanno trovato per terra. C’era tutto e non hanno voluto nemmeno una mancia di ringraziamento.
Sono diventata matta a trovare qualunque possibile combinazione di arredamento, ma ho pensato che basta che butti via (quasi) tutto.
Ho detto, anche se so che è inutile, quel che penso al figlio (che si è barricato in camera sua), dopodichè mi sono fatta le sarde impanate.

Sapevano di mare.

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profumo

Ho fatto un ultimo giro nella casa della mia infanzia.
Faceva freddo, i muri erano spogli, dei quadri restavano solo i segni più chiari. Ho spento tutte le luci.

Tra poco tocca a me.
In attesa di svuotare il freezer, per ora svuoto i pensili del bagno.
Ovvero, dò fondo ai profumi.

E me ne vado in giro tutta aulente, come una rosa di maggio.

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una vita violenta

Si va anche troppo di corsa, ultimamente.
Si va di corsa per non pensare, perché si sta male, e si corre per far finta che tutto questo presto passerà.

Mah. Secondo il mio modesto parere, ogni tanto vale la pena di smettere di fare finta, fare invece un bel respiro profondo, fermarsi per un’oretta e buttarsi in una cosa semplice che richieda, però, la massima cura.
E, soprattutto, lentezza.

Per esempio, si mette su un disco di John Coltrane.
Poi si entra in cucina e si prepara la portentosa frittata parmigiana spessa al sugo.
Una roba buonissima che faceva la mia bisnonna e, considerando il tempo che si passava a spadellare cento anni fa, lenta, lentissima.
Alla faccia di questa vita violenta.

Si prende una grande cipolla e la si fa a dadini, la si fa soffriggere in tre cucchiai d’olio e ci si aggiunge una bella scatola di pelati da 400 grammi, sale, pepe e un cucchiaino di zucchero.
Intanto che il sugo cuoce (lentamente), si affettano quattro grandi cipolle e le si fanno appassire (lentamente) in un filo d’olio con sale e pepe in una padella coperta, a fuoco dolce.

Intanto che le cipolle appassiscono, si mette un panino raffermo ad ammorbidire (lentamente) in un bicchiere di latte, si sbattono almeno dodici uova con un pizzico di sale e due pugni di parmigiano grattugiato.

Si respira, lentamente.

Poi si uniscono le cipolle e il panino imbevuto di latte e strizzato alle uova sbattute e si scaraventa il tutto in una padella antiaderente (la mia bisnonna ne usava una di ferro, ma era molto più brava di me) velata di olio bollente.
La padella deve avere i bordi alti e deve contenere al pelo il composto di uova, perché la frittata parmigiana è alta quattro dita.

Per farla diventare così, si passano i trenta minuti successivi a rimboccarla (lentamente) con due spatole di legno, una per mano.
Si rimbocca la circonferenza, si schiaccia delicatamente la superficie e, quando sembra abbastanza solida, si gira sottosopra con un coperchio (ci va un polso forte, pesa un quintale) e si ricomincia (lentamente) daccapo sull’altro lato.

Quando è tutta bella dorata, si spegne il fuoco e la si dimentica nella padella per qualche ora. Lo stesso si fa per il sugo.

Questa frittata, che è un vero schiaffo alla vita violenta che ci capita di vivere ultimamente, va servita a temperatura ambiente, a spicchioni e coperta con il sugo di pomodoro tiepidino.
E va gustata lentamente.

p.s.
non cercate di ridurre le dosi, è un piattone d’altri tempi e con quattro uova non vi verrà bene.
se siete da soli o in pochi, invitate amici e vicini di casa, non se la scorderanno tanto facilmente.
se invece siete dei solitari irriducibili, il giorno dopo sarà ancora più buona, sappiatelo.

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mr. magorium e la bottega delle meraviglie

A Torino, che è la mia città, c’è una via che si chiama Via Maria Vittoria.
È in centro, ma non ha vetrine aggressivamente appariscenti: Via Maria Vittoria è la via degli antiquari, solo luci soffuse incastonate in palazzi sabaudamente severi, e oggetti di gran gusto.

In via Maria Vittoria, al 29/B, c’è OZ.
OZ è un piccolo spazio con due vetrine piene di cose incantevoli da mettersi addosso. Cose incantevoli a prezzi che spero non suoni offensivo definire ridicoli.

Se suoni il campanello, viene ad aprirti un signore con i capelli bianchi, elegante e gentile. Dentro, trovi buona musica in sottofondo e gioia pura per gli occhi: collane, bracciali e orecchini come li sognavi quando eri piccola, allegri, bellissimi e strani. E, per un momento, ti senti come Dorothy nella Città di Smeraldo.

Se vuoi, il signore elegante e gentile ti racconta come fa a realizzare i suoi capolavori. Se non vuoi, non importa: i suoi capolavori parlano per lui.

Ammesso che tu riesca a scegliere un numero ragionevole di monili da portarti via (ma anche no, qui si può esagerare), uscirai con il tuo bottino di bambina felice avvolto in carte veline colorate e chiuso in minuscoli sacchetti di tulle, pezzo per pezzo.
È un gesto delicato del signore con i capelli bianchi.

Probabilmente, il Mago di Oz. In persona.

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l’uomo che amava le donne

Credo piuttosto che sia difficile rifiutarti qualcosa. Hai un modo di chiedere… come se ne andasse della tua vita…

Oggi François Truffaut avrebbe compiuto ottant’anni.

Non c’è niente da dire di più di quanto non abbiano già detto, o scritto, di lui. Rimane il fatto che è il mio regista del cuore, nello stesso identico modo in cui si può avere un amico del cuore: oltre all’ammirazione, anche (in qualche modo) l’affetto.

So a memoria I 400 colpi e non solo perché è un’opera prima che è un capolavoro.
Ma perché François è Antoine è Jean-Pierre. Come dire, una rosa è una rosa è una rosa.

Per festeggiare il suo compleanno, stasera stiro una montagna di panni davanti alla tv, e intanto mi riguardo L’uomo che amava le donne.

Lui, che le donne le amava davvero, credo che ne sarebbe contento.

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la ragazza di campagna

Non c’è niente da fare, anche se mi sto avviando di gran carriera a diventare un’eccentrica vecchia signora, nel profondo sono e rimango una ragazza.
Di campagna.

Da adolescente ho macinato (quotidianamente) chilometri e chilometri su e giù per le colline, in ogni stagione, in compagnia di me stessa e del cane di turno e, in estate, mi perdevo per giorni interi nella valle davanti a casa alla ricerca di more o di sambuco per farne marmellate.
Raccoglievo i fiori del grande tiglio che c’è in cortile e poi li mettevo a seccare sul pavimento della mia stanza (con infinita disperazione di mia madre) per farne tisane.
Le tisane di tiglio poi me le facevo davvero, in luglio, e le bevevo bollenti mentre studiavo per gli esami sotto la tenda del terrazzo.
E studiavo, sudavo copiosamente e qualche volta piangevo per un amore perduto. Insomma, non ricordo se sudavo di più per le tisane o se di più piangevo per il ricordo di qualcuno che mi mancava.

Da grande sono andata perfino ad abitare in città ma, astutamente, vicino alla collina (a Torino, si può), così di notte facevo passeggiate al buio in Strada del Lauro, una specie di viottolo che parte da Corso Quintino Sella e finisce nel nulla e, d’estate, è pieno di lucciole.

Poi sono arrivata nella periferia ovest, e allora ogni fine settimana scappavo a casa dei miei per sdraiarmi nei prati a guardare l’erba dalla parte delle radici, altrimenti mi sentivo morire.

E anche adesso che sono emigrata, caso strano non metto piede nella metropoli. Me ne sto fuori, in una bolla verde che, anche se non assomiglia neppur lontanamente alla mia campagna, mi protegge dalla folla, dai palazzoni incombenti, dai tubi di scappamento (anche se ho imparato a girare in metropolitana e, in fondo, mi ci diverto).

In questo momento, fuori, nevica. La bolla diventa bellissima e silenziosa.
Sembra di stare in Lapponia e sto bene e penso che in tutti questi anni e con tutto quello che ho visto, non sono cambiata.
Mi piace passeggiare. Distinguo un merlo maschio da una femmina, riconosco gli alberi e il loro nome. Preferisco le cotture lente, e fare il pane in casa. Amo trascinare il tempo, e i vestiti comodi.
Faccio ancora le marmellate, preferibilmente di frutta buona, non ho paura degli insetti e appena c’è un po’ di sole tiro fuori la bici dalla cantina.

Sono qui, ora.
E, dopo tanti anni, resto una ragazza di campagna.

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