Stasera ho portato mio figlio a vedere Katyn, perché guardasse e sapesse.
Si è annoiato un po’, ma ha "resistito" fino alla fine, però siccome parlare con lui è difficile, non ho ben capito cosa può essere rimasto dentro ad un ragazzino di quasi tredici anni, abituato ai film d’azione in cui tutti si ammazzano, ma si capisce bene che è per finta.
Durante la proiezione ho risposto sottovoce a tutte le sue domande e dopo ho cercato di spiegargli.
Ho cercato di spiegare perché ero così emozionata, ho cercato di spiegargli perché, a vedere tutta quella gente sul ponte con sporte, biciclette a mano, bambini piccoli, mi fosse venuto da piangere.
Ho cercato di spiegare ma non so.
Perché per me è diverso. È stato diverso.
Mio padre ha fatto parte delle truppe italiane di occupazione in Grecia, quella che tutti chiamavano (un po’ scherzosamente, un po’ no) l’Armata Sagapò.
S’agapò in greco moderno significa ti amo.
Mio padre era un ufficiale del controspionaggio, fino all’8 settembre 1943 ha lavorato per i Tedeschi, a censurare lettere.
Niente di che, erano alleati.
E nel tempo libero faceva scorpacciate di angurie e corteggiava le belle ateniesi.
A fine settembre gli avevano detto che la guerra era finita e si tornava a casa.
Invece non era vero: il treno che doveva portarlo in Italia aveva improvvisamente svoltato a sinistra e in su, verso il Nordest.
In due anni mio padre si è fatto quattro campi di concentramento, tra cui Norimberga (col famoso bombardamento degli angloamericani preso in pieno, sdraiato bocconi in un cortile di una fabbrica a cielo aperto, mentre intorno a lui molti se la facevano nei pantaloni e alcuni impazzivano di paura) e Częstochowa in Polonia, dove l’inverno era molto duro e nevicava un sacco.
Mio padre non è mai stato fascista però non era molto di sinistra.
Ma aveva giurato fedeltà al re, all’Italia e alla sua divisa: tutte le settimane le SS facevano l’appello e quando c’era la neve, ti arrivava ai fianchi, e l’appello durava tre ore, e dovevi restare tutto il tempo sull’attenti, e avevi freddo e fame.
Alla fine dell’appello potevi firmare per la Repubblica di Salò, e ti mandavano subito a casa.
Mio padre non ha mai firmato (ha dovuto aspettare gli Australiani, quando è stato liberato pesava 43 chili e non era più capace di dormire in un letto) e così ha fatto la sua personale Resistenza.
Poca gente lo ha saputo, tutti hanno sempre parlato (giustamente) dei crimini fascisti in Grecia, ma i deportati dell’Armata Sagapò sono diventati famosi, anche grazie ad una mostra, solo pochi anni fa e lui era già morto.
Io tutte queste cose le sapevo (con tutti i particolari più brutti e più crudeli) già a sette anni.
Anche se, in molti modi, mi ha passato tutta la violenza e il terrore che ha vissuto in quei due anni, mio padre l’ho sempre rispettato e ammirato.
Grazie a lui ho imparato a conoscere e ad amare i Polacchi, e a distinguere la verità, anche se fa male.
Perché in qualche modo, essere la sua memoria da quando ero piccola, è una cosa che pesa.
Pesa così tanto che ho aspettato che i kids fossero un po’ più grandi, per raccontare.
E quindi, alla fine non so cosa penserà Pietro domani mattina andando a scuola, se per caso penserà a questo film. Che è un grande film.
Però Pablo Picasso una volta ha detto che l’arte è una grande finzione che serve a raccontare la verità.
Anche il cinema è così: io spero che a mio figlio, stasera attraverso una finzione, sia arrivato qualcosa da mio padre.
E se qualcuno di voi vedrà Katyn, capirà perché, e davanti a quali scene, mi sono così emozionata.
soundtrack: Through the barricades, Spandau Ballet