la compagna di banco

A volerla guardare da un certo punto di vista, la redazione sembra un’aula di scuola (elementare).

Oltre al casino permanente, le musichette fischiettate, i commenti volanti (e molto personali) sui film, le imprecazioni piuttosto colorite, le canzoncine canticchiate (e spesso storpiate o adattate alla recita degli orari dei palinsesti), gli scherzi fondamentalmente infantili, ci sono le preferenze per le postazioni di lavoro.

Ufficialmente contano: il fatto di non avere le spalle alla porta (ché te beccano subito mentre stai su Fb), la lontananza dalle finestre (pericolo di spifferi), dai termosifoni (pericolo di finire lessi) e dall’aria condizionata (pericolo di assideramento).

Ma in realtà conta moltissimo chi hai come compagno di banco.

Io finora sono stata fortunata: anche se mi ha fatto fuori quintali di gomme da masticare allo xilitolo (ma come cavolo avrà fatto, a non farsi venire il cagotto) e mi prendeva in giro, con la scusa che sono semisorda (tutte le ex rockstar lo sono, bellezza) bofonchiando frasi incomprensibili, la mia è stata una grande compagna di banco, pronta ad aiutarmi e a fumare le stizze in pausa, bella da guardare (zia, perché mi fissi?) e buona da annusare, il che, in un ambiente chiuso e affollato, rappresenta un enorme vantaggio.

Da domani la mia compagna di banco non sarà più la mia compagna di banco perché la prossima settimana, beata gioventù, se ne va a Londra.

Mi ha lasciato in eredità una matitina di Ikea, un portapenne di latta che era stato, prima ancora, di qualcun altro, una manciata di clips e un minuscolo freeclimber che si arrampica su una minuscola stiscia di carta irta di graffette.
Oltre alla preoccupazione che, come prossima compagna di banco, avrò la tizia con la voce bitonale.

Devo aggiungere, per diritto di cronaca, che ha offerto alla redazione tutta un mozzicone di matita masticato da lei spacciandolo per una preziosa reliquia del suo dienneà, ma che è stato immediatamente cestinato ;-D

Allora addio, cara Gine, mi mancheranno i tuoi silenzi semicomatosi, le tue battute fulminanti e ironiche, il tuo modo così stiloso di stravaccarti davanti al monitor, le tue mezze frasi sardoniche (ma in realtà affettuose) nelle mie giornate-no.

Anzi arrivederci (e nel frattempo, goditela): la zia ha sempre pronta una bella mestolata di passato di verdura (o gomme da masticare allo xilitolo) per quando torni 🙂

soundtrack: (ti piacerà, lo so)

l'amore ai tempi del colera

In questa sera di blackoutperlaterra e scatto dell’ora legale, l’Alga riceve un invito ad uscire dalla tana.

E, non molto convinta, l’accetta.

Così, si trascina in bagno e si guarda allo specchio.
Decide che la sua faccia stropicciata va bene così, basta giusto un ritocco di mozzicone di matita, e poi si infila un paio di leggings H&M, gli stessi che trent’anni fa portava sotto il nome di fuseaux.
I capelli li ha lavati ieri, non c’è bisogno di rifare la trafila, una spazzolata a testa in giù sarà più che sufficiente.

Poi si spruzza un rimasuglio di Feud’absinte, che ancora le spacca il cuore, ed è pronta per l’avventura.

Come prima cosa, un rifornimento di benzina al selfservice (con la pioggia controvento) le mette cappaò la scarsa capigliatura.
Ciò nonostante, servendosi di un biglietto scarabocchiato sbirciando Googlemaps, arriva a destinazione.

Casa del maschio invitante: aperitivo piuttosto pesante (il suo), mentre Alga, sfidando le sue paure più ancestrali, prende in mano il serpente (non pensate male, trattavasi realmente di un rettile) albino con occhi rossi, corazza rosa e lingua saettante (brrrrrrrrr) del primogenito del maschioinvitante.

Segue tragitto in macchina attraverso Milano: Alga guida col maschio che fa da navigatore, e non capisce assolutamente un cazzo di dove stia andando.

Segue ancora festa in posto normale: scambi vocali a volume mostruoso dalla quale si estrapolano brandelli assolutamente insignificanti.

Segue ancora, in cucina: conversazione con un tipo sconosciuto che lamenta problemi di insonnia (ma guarda…) e che non si sa fare nemmeno una bistecca.
E qui, Alga capisce che l’unico argomento che la eccita (veramente) è la cucina.

Segue, infine, il ritorno a casa.
Nel quale Alga si fa, guidando, da Mac Mahon a quasi XXII Marzo (sotto la pioggia battente e in una città che non è la sua) con il maschio invitante che (in preda ai fumi dell’acool, probabilmente) le fiata nell’orecchio proposte moooolto osè mulinando nel frattempo le estremità superiori a mo’ di polipo.

L’Alga non è interessata, ma le viene da ridere (anche se portare una macchina in queste condizioni, non è prorio facile, perché il maschio invitante le è simpatico.
E poi ride anche perché il fatto di essere effettivamente piuttosto trombable le sembra buffo.

Però (evidentemente) è così.

soundtrack: It’s a man’s man’s man’s world, James Brown

la lettera

Cara mamma,

ti telefono tutte le sere perché così forse hai l’impressione che io non sia tanto lontana.
Non che sia così tanto lontana, sono solo a un’ora e mezza di strada, ma in fondo ha ragione mia sorella, tu qui non ci verrai mai e non perché hai ottantacinque anni (esistono i taxi che ti portano alla stazione e se aggiungi una mancetta l’autista ti accompagna pure fino al treno e poi sul trenosuperveloce ci sono le hostess che ti scortano al tuo posto e poi a Milano ci sono io che ti aspetto sulla banchina e poi c’è la mia macchina e poi a casa mia c’è la rampa al posto delle scale d’ingresso e poi c’è l’ascensore e poi c’è il parco con le panchine a due metri e poi dai, mica stai su una sedia a rotelle ;-)], del resto il posto dove sto l’avevo fotografato a settembre perché tu lo vedessi, perché vedessi quanto ero stata brava a trovare una casa (minuscola, vabbé, ma sempre una casa, in meno di un mese in un posto così bello).

Così, perché tu le vedessi, avevo mandato le foto via mail a mia sorella, ma tu non le hai mai viste e non ho ancora capito se era perché tu ti dimenticavi di chiedere, o lei si dimenticava di fartele vedere.
Te le ho dovute mostrare tre settimane fa, quando ti sono venuta a trovare, sul minimonitor della mia digitale, peccato, su quello più grande del computer rendevano meglio (e lo so che qualsiasi bambino, infondoinfondo ci tiene a fare bella figura con la sua mamma, e io non faccio eccezione).

Cara mamma, quando ti dico che la Gine tra poco parte per andare a stare a Londra e io sono triste, tu mi rispondi che non ci si deve affezionare a nessuno.
Quando ti dico che mi fanno male le ginocchia tu mi rispondi che mi devo comprare un bastone.

Magari sono anche risposte sensate, ma io continuo (irragionevolmente) ad affezionarmi alle persone e penso di essere (ancora) troppo giovane per andare in giro col bastone.

Stasera mi hai detto che è inutile che ci sentiamo se io non sono capace di farmi rispettare dai kids, tipo far fare il letto alla Cami (ma sappi che poi ho ottenuto che Pietro portasse il saccone della pattumiera di sotto), e così ci siamo frettolosamente salutate.

Cara mamma, io penso che sono i nostri mondi personali ad essere distanti, non le nostre due città.

E se potessi, ti scriverei una lettera per dirti che mi piacerebbe non parlarti per un po’, e richiamarti solo quando avrò qualcosa di veramente bello da raccontarti.
Però quel che funziona per me non funziona per te e viceversa.

Quindi continuerò a chiamarti tutte le sere.
E, tirando fuori il tono di voce migliore che riesco a trovare, ti dirò che va tutto bene.

Va tutto bene 🙂

soundtrack:  White as snow, U2

cosa fare in caso d’incendio

Cercando su Googlemaps l’Asl più vicina per rifare le tessere sanitarie capita che il mouse impazzisca e si metta a navigare in linea retta verso Sud.

E dopo un po’, fatalmente, capita che arrivi il mare.

Precisamente, in linea retta, Lavagna.

Tutto quell’azzurro così piatto e cartografato prende lo stesso un po’ alla gola (e fa bruciare gli occhi), soprattutto se è da giugno che non lo vedi dal vero.

Ma siccome (realisticamente) non sai quando mai lo rivedrai, che si può fare?

Boh, dato che siamo in Lombardia si può fare come Amatore Sciesa, (così come il mio babbo me lo raccontava quand’ero piccola): tiremm innanz!

soundtrack: I’m your man, Leonard Cohen

la febbre del sabato sera

Il cu mi porta ad una festa danzante inculoagiove, che sembra un po’ una riunione nella tana degli scout di mio figlio, e c’è pure qualcuno con una traspirazione piuttosto pesante e, come al solito, nessun maschio presentabile.

Però la musica è una bomba e naturalmente io mi lancio, confidando nella similguarigione del ginocchio sinistro ancora abbastanza svalvolato.

Me butto perché è difficile, resistere alle vere passioni.
E perché c’è anche la Cami, stasera.

E ballare con lei è un vero battesimo, l’iniziazione al vedichenon sonomortaanchesesonotuamadre (chissà se l’ha capito).

Senonché, il destino è in agguato.
Si chiama pizzica.

Io, alla pizzica, non resisto.

Basta un passo, e il ginocchio fa crac.

Il destro.

Morale: oggi andatura da novantenne e niente Gauguin.

È triste (e anche un po’ da paura) farsi male quando sei sola (e tua figlia, come unico commento, ti dice che sei una babba).

Ma meno male che esistono gli antiinfiammatori e il vecchio tutore che era servito questa estate e giaceva sotto il tavolo del computer.

Così, anche se non posso andare a Brescia, mi consolo a modo mio.
Preparazione di un fantastico baccalà alla vicentina (ché la cucina è la vera cura, oh yeah) e bagno caldo con sali alla rosa di Muji.

Finché l’antidolorifico fa il suo effetto.

Domani, chissà.

soundtrack: Once in a life time, The Talking Heads

acto da primavera

tulip
Lo so che vi sto a sfinire con le foto dei miei fiori in vaso.

Ma è che sono una delle poche cose che mi fanno sentire viva, ultimamente.

Premesso che il lavoro c’è e non mi posso lamentare, ci sono anche momenti belli e momenti brutti.

Nei momenti brutti mi sento inscatolata in una corsa che non sa dove va e penso che la mia vita (nel senso dei sogni, dei desideri e delle aspirazioni) è bell’e che finita, o sospesa ancora per molti anni.

Nei momenti belli vedo quello che ho e spero che prima o poi verrà un momento anche per me.

Nel frattempo, tra i momenti belli e i momenti brutti, tra le rabbie e le nostalgie e gli spaventi e le discussioni, e i conti da far quadrare e il dentista e i compiti da controllare e le corse, ogni tanto guardo i fiori (ché loro sì, che sono sempre incantevoli).

E ascolto canzoni, tanto alla fine è proprio vero, che siamo solo di passaggio 🙂

soundtrack:    

da zero a dieci (finalmente domenica part two)

volley 1

Non so mai se andarci, alle partite della Cami.

Perché tutta quella calma e apatia apparente, appena mi siedo a bordo campo, si trasforma una bolla in ebollizione che poi mi esplode nella gola e nella testa e devo per forza urlare e fare versi strani e battere i piedi e poi mi viene da piangere e poi chiuderei gli occhi per non vedere perché certe volte è troppo stressante e come al solito vorrei essere su Marte.

E poi mi scappa anche la pipì.

Ma sono così dannatamente belle, e quando vincono mi accorgo che le attese fino a mezzanotte con la cena pronta nel microonde, le corse in macchina a tarda sera, le levatacce durante i weekend sono solo, veramente, esclusivamente emerite cazzate.

Forza Proooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo!

soundtrack: The power of love, Huey Lewis & The News

finalmente domenica

Sonno senza sogni.

Svegliata a scatti 08.00, 09.15, 10.08, 10.30.

Proditoria corsa in centro (ma non guidavo io), acquisto non previsto di tre magliette e tre boxer (non per me).

Rivista una persona per la prima volta dopo ventinove anni, attraverso un appendiabiti di Zara (coinvolgimento emotivo quasizero).

Mangiato in piedi davanti alla feritoia della cucina (dalla quale Spago cercava di spenzolarsi) nell’ordine:
paté di fegato avanzato su pezzi di knäckerbröd Ikea (non è un mobile, eh?)
puntarelle troppo vecchie con mix maionesesambal
una fetta di bonet di ieri.

Fatto una lavatrice.

Messo un minestrone in pentola a pressione.

Guardato dalla finestra del soggiorno coppie che si aggiravano nel parco, mano nella mano (nessuna reazione particolarmente dolorosa).

Fatta ricarica cellulare online.

Basta, per ora.

La domenica, per me, continua ad essere un mistero.

soundtrack: non la metto, non ho acceso lo stereo, oggi.

mishima

Eh.

Non è mica da tutti, averci un figlio che pensa bene di capottare con il monopattino planando di faccia sul lastricato del cortile della scuola alle otto in punto di mattina.

Spavento a parte (drinnn driiin, signora non si spaventi), è stata un’avventura:

cercare di uscire dal paisiello (come lo chiama Silvia) nell’ora di punta.
trenta minuti per guadagnare una strada normale fuori di qui (e se uno sta per morire, come fa?)

trovare un qualsiasi ospedale cercando di non perdersi (io mica ce l’ho, il navigatore)

– scoprire che una fronte aperta piùommeno come un’anguria, te l’attaccano col bostik

– avere la conferma che, anche da grandicelli, la famosa terapiadelbaciosullabua fa miracoli

– tornare trionfanti con un kid addobbato come un samurai biancofasciato pronto per il suo seppuku (ché il cerottone e il naso spatasciato stile Jack La Motta con le ragazzine faranno di sicuro la loro porca figura).

Unico danno reale, se uno vuol fare proprio il pignolo, gli occhiali polverizzati.

Terzo paio in un anno.

E vabbe’.

soundtrack: Doctor doctor, The Who